Il sesso parlato di Alberoni

 

Caro lettore. Sei un anzianotto agli ultimi colpi e cerchi una lettura che ti dia una viagrata? Sei un giovanotto alle prime armi e cerchi un guru che ti insegni come funziona? Sei una donna romantica e compri qualsiasi libro abbia nel titolo la parola “amore” o suoi derivati? Bene, I dialoghi degli amanti di Francesco Alberoni (Rizzoli, € 19.50) non fa per te. Puoi rimettermi sullo scaffale, perché qui dentro non c’è niente di “sfrenatamente erotico”, come sostiene l’editore. E neanche di erotico tout court. Né, tanto meno, c’è una storia di “amore totale”, come cerca di spacciarla sempre l’editore. Ci sono semplicemente due tizi dai nomi fessi come anagrammi falliti (lei si chiama Sakuntala, lui Rogan) che per 300 pagine – accozzato un confusissimo pretesto di trama fantagenetico-orwelliana – si intervistano a vicenda sulle rispettive esperienze erotiche. Anzi, si limitassero alle rispettive, poco male; ma sono così logorroici – nonché incuranti di logica narrativa – da ragguagliarsi persino sulle esperienze che stanno avendo insieme! A un certo punto, giusto per fare un esempio, lui si lancia in una specie di radiocronaca del cunnilingus che le sta infliggendo – come farà a parlare mentre cunnilingua? ventriloquismo? bilinguismo alberoniano?
Ma non lasciarti fuorviare dalla suddetta acrobazia, caro lettore: il sesso che si fa qui dentro è sì per guardoni, ma guardoni ciechi. Gli interminabili cimenti carnali di cui si ciancia sono così sgonfi che non riusciresti neppure a vederli, figùrati goderli; così insistiti e barbosi da risultare, paradossalmente, asettici. È sesso parlato, non sesso giocato. E pure parlato male, giacché la scrittura oscilla tra il ridicolo di balordaggini non so se più anatomiche o linguistiche (“sei tu che monti sopra di lui spingendolo in alto coi tuoi talloni e sbattendo davanti alla sua faccia le tue tette”) e il bamboleggiare eufemizzante dei fotoromanzi softcore di un tempo (“scostando le piccole deliziose labbra mi appare il grande petalo di orchidea rosa che termina sotto il cappuccio in cui c’è il bottoncino del piacere”). E con una volgarità che non è data dall’abuso di pecoreccio bensì dalla rozzezza con cui viene scodellato, senza neanche un minimo di impegno se non stilistico quantomeno tecnico, in un trionfo di sciatterie (tipo definire “a forma di anfora” una donna “con petto ampio, spalle piene, grandi tette… gambe con le cosce tornite”, o dire che un orgasmo viene “subìto”) e sviste di ogni entità (“ti ha fatto della avance”, Montreuil per Montreux, Heidi con la y, “io stesso” detto da una donna, ecc.).
E ricorda, caro lettore: non leggendo questo libro, ti risparmierai anche le ridicole poesiole che Alberoni rifila nelle ultime pagine (“È sempre te che vedo / è sempre te che sento / è sempre te che cerco / nel tramonto / striato di nubi viola…”). Ridicole e perniciose, poiché lasciano capire che la sua prossima vittima sarà in versi. D’altronde, è il percorso di molti intellettuali âgé quando sono in amore: fatto cilecca con la narrativa, cercano di rifarsi a spese della poesia. Dopodiché, col sollievo di parenti e librai, arriva la pace dei sensi – acquarelli e giardinetti, finalmente.

Articolo di Sergio Claudio Perroni del 15 marzo 2010 per Libero

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