Brindisi all’amico infame, di Emilio Isgrò, edito da Aragno. L’ha visto esposto in vetrina nella libreria dove s’è rifugiato in cerca d’aria.
È a Venezia per la Biennale, una Venezia pestilenziale più del solito, torrida per clima e folla, resa ancor più lugubre da decine di mendicanti che, ligi a una loro nouvelle vague estrema, adesso pitoccano in ginocchio, su appositi cuscini che li rendono torvamente identici a spagnoleschi oranti straccioni.
“…E se si pente l’isola stracciona || (credete al mio cordoglio) | si pente pure il cielo, || pure il mondo si sente meglio: | anche l’Africa, anche il Guatemala… || E’ qua che si decide e crolla | e si rianima || il corpo delle Americhe: | tra Alcamo e Catania, || Caltanissetta e Modica. | Se non si spara qui | altrove non si uccide, | altrove non si sperpera. || Ah, siate responsabili | siciliani acquatici, | figli di buonadonna e tenebre!”
Proprio a Isgrò e alle sue Cancellature, più volte ospiti della Biennale, pensava poco fa di fronte a “Dictionary pain” di Mladen Stilinovic, una delle poche opere notevoli esposte all’Arsenale: voci di dizionario dove la definizione di ciascun lemma è cancellata e sostituita da una parola scritta a mano, sempre la stessa: “pain”, dolore. Messaggio potente, e debito palese benché taciuto coi testi sacri della parola che Isgrò, pioniere dell’arte concettuale, negli anni Sessanta esponeva dopo averli cancellati quasi interamente – però in silenzio, senza la ridondanza didascalica del messaggio espresso, confidando nella cancellatura in sé come lutto del senso.
“Casta Amneris, infranta casta diva, | il sesso ce l’avevi scritto in fronte, || ma lì soltanto – e non lo praticavi. | Occhioni neri, neri di lascivia, | la mia sete comincia quando nevica, || con le cresime scatta la mia fame. | Siamo gelidi, butterati | nell’anima, puliti fra le gambe. || Uccidiamo per gioco, non per scelta. | Per il piacere, forse, di recitare un requiem.”
Quello di Isgrò “Gran cancellatore” era un negare la parola da poeta, così come il suo negare la figura era da figurativo. Trascendeva la forma e la sua sintassi conoscendone profondamente anima e meccanismi, al contrario di chi si rifugiava nell’astratto per ripiego e ripicca all’incapacità di padroneggiare l’una e gli altri – come oggi ribadisce la bellezza anche plastica dei suoi versi: “Chissà tra quali brividi | è morta quella moscache nel giorno più nero || del settecento novescampò a sicura morte | staccando dalla criptadei frati cappuccini | e traversando l’ariacon quella testa a mandorla | – così improponibilein un insetto serio – || che pure Dio ridevae si faceva piccolo | al solo dubitareche anche lui, a volte, || progettava una rosa | e gli veniva un angelo.”
Poi, comprato il volume e abbandonata la frescura della libreria, torna fatalmente col pensiero a Isgrò nel trovare prima uno, poi due, poi tre non-dipinti nelle sale del Correr, che ospitano una mostra paradossalmente intitolata alla pittura.
“Le cose sono andatein segatura e polvere, || mangiate da una tassacontinua, inesorabile.”
Fa in tempo solo a chiedersi quanti altri non-dipinti ci siano, e perché allora non un bell’Isgrò d’epoca, o magari un ritorno ad hoc alle cancellature (però stavolta di quadri: chessò, tre bei freghi neri sulla “Vucciria”), quando un’impiegata del museo adocchia la bottiglietta d’acqua che ha in mano e lo invita a riporla nello zaino.
Ma lui non ha zaino. Allora nella borsa. Ma lui non ha borsa: come vede, ha solo un catalogo e un libro. Allora deve o consegnare la bottiglietta o uscire. Motivi di sicurezza. Niente bottigliette a vista.
Opta per la seconda possibilità, senza soffermarsi a chiedere cosa impedisca all’eventuale malintenzionato, una volta introdotta col favore dello zaino la temibile bottiglietta, di sguainarla e dare alle gocce l’intero museo.
“Io là voglio sfinirmi. | Io là voglio morire. || In quel paese d’oro | e di conquista || dove anche la briscola | degenera in tragedia.”
-------------------------------
Isgrò scrive bei versi –
peccato non cancelli più,
per esempio Hirst.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 21 giugno 2003