A vederla non si direbbe: eppure, specie dal punto di vista editoriale, la poesia ha spesso a che fare con il coraggio. Il gran coraggio di chi, per esempio, si lascia pubblicare come poeta pur essendo al massimo un posteggiatore a corto di chitarra.
Gente tipo Ivan Della Mea, per dirne uno – che fra l’altro è alla ribalta in questi giorni grazie a gloriosi trascorsi di cantautore da fiaccolata. Ed è stato appunto mentre lui, sul palco del Festival dell’Unità, stornellava vittimismi d’antan, che abbiamo avuto la ventura di ritrovarci fra le mani il suo fiammante Prima di dire, edito dalla rediviva Jaca Book.
Nel risvolto, pur vezzosamente dandosi del “forse poeta”, Della Mea non resiste alla tentazione di professarsi autore di ben due raccolte di poesie; il che, stagliandosi in un carniere talmente gramo da accreditargli, pur di far massa, la presidenza “dal maggio 1996 dell’Istituto Ernesto de Martino a Sesto Fiorentino”, “tre 33 giri 17 cm”, “tre 45 giri”, “dodici Lp 33 giri incisi” (perché, in genere com’erano? affrescati?) sarebbe un risultato di tutto rispetto.
Peccato però che non si capisca bene cosa intenda per “poesie” il forse poeta Della Mea, visto che sfogliando Prima di dire non se ne trova neppure l’ombra. Si trovano piagnistei pseudoideologici, si trovano comode intemerate di carta, si trova il trionfo della buoneria più tossica e corriva, quella che dà di cattivo a chiunque abbia voce in capitolo – ventilando così che tale voce l’abbia illecitamente sottratta agli aventi diritto. Ma poesia, zero.
Si trova, in una cacofonia di accenti gemebondi, lingua impastata e metro zoppo, la facile epica dello sdegno generale e incondizionato (sdegno che investe da Agnoletto a Berlusconi non risparmiando Strada, Cofferati e Rutelli) usata come cetra per scroccare consenso ai tanti che si bestemmiano anarchici dall’imo di un qualunquismo da tinello (“Margherite e ulivi e asinelli | spiriti belli dei miei corbelli | un giorno appresso all’altro | a rabberciare qualche unità | che dia senso, rido, all’alternanza”). Ma poesia, niente. Neanche in versione dubitativa.
Ovviamente non mancano le lacrime asperse a fontana sui morti da guerra (“Tu muori oggi – atroce – per la pace | tu muori per una cosa che non sai che sia | A te, fratello: | Ave Maria”), con una ricerca dell’effetto Telethon talmente spasmodica, che la pacchianeria dell’esito riesce perfino a strappare un moto di simpatia. Così come lo strappano le buffe liricate da liceale leopardato di fresco (“il volo tuo gentile”, “il passo volgo verso casa”, “il murmure azzurro dell’acqua”) e soprattutto le avvincenti note introduttive dei singoli componimenti, la cui solida impenetrabilità viene alimentata da un bonaviriana incertezza se alla vanità dell’autore convenga più la prima o la terza persona: “A Lenola in occasione della presentazione di un saggio sul Chiapas. Ingrao lesse «Il compagno G» alla presenza di Ivan Della Mea pure invitato”, “Una vigilia di Natale all’Arci Corvetto a Milano, di cui sono socio da oltre 20 anni”, “Nel cd del manifesto, La cantagranda: da non confondersi con il volume La cantagranda di Ivan Della Mea”.
Non che il resto goda di maggior chiarezza, visto che il livello oscilla fra “Chiedo scusa ma mi sono perso | disperso a un dipresso e un po’ depresso | rimescolo il mio dietor nell’espresso… | c’è sempre chi molto intelligente | rimedia ognora con la mediazione | col napalm yeah col gas nervino | da da kremlino” e “C’è una morale in questo io credo che ci sia, | prima vince il potere e poi la sua zia | sia aristo, sia oligo, sia pluto […] demo | chi vota alla fine si sente anche scemo” (la rimozione del “giudo” è nell’originale: coraggiosissimo esempio di sottolineatura per assenza).
Il tutto in una miseria di contenuti tale da far sperare che baggianate quali “Tornerete a casa lavoratori italiani | Caduti sul lavoro in Iraq | …| dovevate morire | questo governo lardo necessita di martiri e di eroi” non fossero refusi. Così almeno ci sarebbe un po’ da ridere.
------------------------
Fa versi di protesta
Della Mea poeta.
La poesia ricambia.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 10 settembre 2004