Quella dello Specchio è stata per anni una delle collane di poesia più importanti d’Europa. Poi ha smesso. Ed è diventata una vetrina per poetucoli, allestita da due vetrinisti all’altezza. Una ribalta per verseggiatori da diporto, in mezzo ai quali capita anche qualche poeta vero – felice evento, ma così raro da immaginarlo dovuto più alla legge dei grandi numeri che ai vetrinisti. Pura chimera, quindi, aspettarsi di trovare nell’Almanacco dello Specchio (Mondadori) il meglio della poesia italiana dell’anno; o, se non il meglio, anche solo un po’ di poesia; o, se non proprio poesia, almeno un tentativo, un afflato che un giorno, chissà, possa trasformarsi in poesia.
E così, tranne qualche svogliata eccezione giusto per confermare la regola, anche quest’anno lo specchio dell’Almanacco riflette perlopiù le immotivate vanità di una combriccola di poetastri. Quelli che durante l’anno si puntellano recensendosi a vicenda, premiandosi a vicenda, pubblicandosi a vicenda, prefacendosi a vicenda, incensandosi a vicenda. E a fine anno confluiscono in questo allegro almanacco del verso di scambio. Nel quale un membro del comitato di lettura, Biancamaria Frabotta, recensisce il “libro assai bello oltre che importante” di uno dei due curatori, Maurizio Cucchi. E un altro membro del comitato di lettura, Alberto Bertoni, recensisce l’altro curatore, Antonio Riccardi; per poi, non pago, recensire pure la suddetta Frabotta, la quale recensisce a propria volta un terzo membro del comitato di lettura, Mario Benedetti. Che almeno, in questa ronde del verso cariato, è un poeta vero (“A Brest è piovuto una volta per sempre. | Un viso, una corsa sono stati amati per sempre, per sempre. | Ti guardo dalla sabbia che sembra non finire nemmeno lì dove sei”), mentre gli altri sono appena un po’ meglio di Cucchi, così impoetico da perpetrare versi come “mi infilo nel portafogli del mio letto | come una carta d’identità scaduta” o “amo, del resto, questa mia fronte spaziosa” .
È dunque una festicciola di soliti noti, questo Almanacchio: un party tra compagni di faccende, un Cafonal in versi. E le occasioni poetiche sono così rare e bistrattate da sembrare ospiti sgradite. Bistrattati sono i bei versi di Milo De Angelis (“Ecco l’acrobata della notte, il corpo | senza nulla, un’incisione | nell’aria, un puro scoccare | di fosfori”), di Marco Santi (“E sento il soffio di cenere sfiatare nel camino, | nell’altra storia di noi conclusa”) e pochi altri, annegati in un chiasso di inediti che avrebbero fatto meglio a rimaner tali (uno per tutti, di tal Giovanni Orelli: “Ha poi lasciato il tutto a mia madre | e lei a me: liti così stanno bene. È vero.”).
Bistrattati sono gli inediti del povero Bigongiari affidati ad Andrea Kerbaker, assurto a dignità accademica dopo aver gestito un tanto generoso quanto vago progetto culturale della Telecom tronchettiana. Bistrattata è Mary Tolusso, usata non per poetare bensì per… intervistare sulla poesia un attore – roba che manco Vanity Fair. Bistrattate sono soprattutto le poesie di Carpi, D’Agostino, Miti, Loreto e altre poetesse quasi tutte di rango, che una mentalità rozza e guasta ha rinchiuso, quasi a voler espiare il pregio di averle selezionate, in un’“antologia al femminile”: una riserva muliebre, un’enclave per signore. Occorre stanziare quote rosa anche nel salone della poesia, la più femmina delle arti? Non è semmai il maschio, soprattutto in questo secolo, soprattutto in Italia, a farvi spesso la figura dell’imbucato?
Per rendersene conto basterebbe confrontare i versi straordinari di queste autrici, alcune poco più che trentenni, con quelli dei “giovani autori” che secondo il duo Riccardi/Cucchi dovrebbero rappresentare “la vitalità della nostra poesia d’oggi”: si va dagli attacchi di metaforite incontrollata (“spalancate i pori | delle mani alla bocca del giorno”) alla più imperterrita e sorda impenetrabilità (“ti avvolgi più stretta la folla intorno | la bocca nel rumore dei viali”), tipiche affezioni poetastre sin dalla notte dei tempi.
Al confronto, sembra gggiovane perfino Nanni Balestrini, che ancora a settant’anni cerca di fare il poeta di rottura, dedicandosi un autoritratto (anzi, un “autopsicoritratto”) che riesce a non peccare di vanità solo perché non vi si capisce un’acca (“le associazioni d’immagini | e di idee si svolgono | in una cadenza aritmica provocando | impulsi e inibizioni | che contrastano tra loro”).
Bistrattata è insomma la poesia in sé, da questi baldi dioscuri dell’Almanacco, instancabili professionisti dell’antipoesia. D’altronde è difficile aspettarsi altro da chi ha il coraggio di ospitare un “saggio” in cui il sacro nome di Baudelaire viene accostato – e per ben tre volte – a quello dell’autore di questi versi: “lei, ansiogenata nello sbando quot. | sagoma interlux, dita di rosmarino | narrabile alle amiche, si fa sottomarino”. Autore che si chiama Giancarlo Majorino, e che, ovviamente, fa parte anche lui del comitato di lettura dell’Almanacco. Degno suggello a questo sodalizio di nulla.
Articolo di Sergio Claudio Perroni del 20 marzo 2010 per Libero