È dubbio se una bugia ripetuta cento volte possa diventare una mezza verità, ma si può affermare con sicurezza che non basta ripetere cento volte quali siano le proprie aspirazioni (e ispirazioni) per dirsi poeta. In particolare, l’aver reiterato per trent’anni lo stesso mantra monocorde – Pasolini, Versi Civili, Resistenza, Pasolini – non ha certo consentito a Gianni D’Elia di diventare un poeta (ammesso, poi, che poeti si diventi). È ciò che si ricava dalla lettura dell’antologia pubblicata da Einaudi – Trentennio, appunto – nella quale il basso continuo appena richiamato pulsa dalla prima pagina fino alla quarta di copertina, dove il libro viene definito, in maniera non proprio accattivante, “Un viatico di resistenza umana per superare le amarezze di tante sconfitte che hanno intrecciato il privato e il politico in questi ultimi trent’anni”. Vertici degni del Caro Diario di Moretti, lì dove gli “sconfitti” si lamentano perché nemmeno l’Optalidon è più lo stesso (“Ti ricordi il tintinnio rassicurante del vecchio tubetto?”). D'Elia, di queste sconfitte, è dunque sia aedo sia protagonista. Rispetto a Moretti è come se stesse rifacendo, per renderla seria, una parodia. Un esercizio funambolico, da restarne ammirati.
Ma sempre con l'occhio a Pasolini. Anzi: a Pier Paolo, come confidenzialmente viene chiamato in qualche testo, con una scioltezza degna del miglior Arbasino. Certo, non è sempre facile decrittarne l’ombra attraverso la filigrana di versi che potrebbero più ragionevolmente far pensare agli sfoghi di un rapperonzolo nostrano: “Questa Europa, questo mondo, fa vomitare / (…) / Ricorda, solo un nuovo sentire-pensare / potrà cambiare davvero il vecchio fare”. Dubbio corroborato anche dalla cronaca dell’incontro in treno con un giovanotto, il quale si esprime in un gergo che aspetta solo di esser messo in versi: “ma io non ho finito di studiare... / non ho il biglietto, m’hanno già beccato, / speriamo fino a Foggia di sgamare”. Sono esempi che tuttavia non devono fuorviare: se ci viene detto Pasolini, da qualche parte Pasolini ci sarà di sicuro. Anche se magari lo strazio delicatissimo delle sue poesie in furlano può sembrare distante, tanto distante, quando ci si imbatte in strazi poetici di segno ben diverso: “tutto mi pare senza senso, / la pioggia, le squame lucide dei tetti / le notizie meteo e sportive, il quarto / posto di Irvine al Gran Premio del Belgio”. Se, fra mille terzine, pare di perdere di vista Pasolini, è solo perché l’ascesa al cielo dei Poeti – sempre affollatissimo – necessita di padri anche più nobili: “e maledirvi è poco, persecutori di Lotta Continua, / bugiardi, disonesti, mestatori da Caina, / professionisti d’una legge da untori, / feroci persecutori di una vendetta / contro il cuore puro delle generazioni / mosse solo dalla speranza benedetta”. Forse una sinossi tra il destino di Dante e quello di D’Elia, entrambi costretti a praticare la Resistenza come categoria dello spirito? Può darsi. O saranno i Versi Civili tanto promessi, con passaggi che non sarebbero dispiaciuti nemmeno a Zdanov. La Riviera adriatica? Eccola: “Si lavora per il divertimento degli altri / e ci si diverte con il lavoro altrui, / un po’ come nei capisaldi del Capitale”. E l’emozione suscitata dal volto dei compagni? Pronti: “Almeno, non amammo i borghesi, la media / ma la faccia del Roscio, carrozziere / elettrauto, compagno al tappezziere, / al falegname che piallava accanto, / uniti tutti allora a quel canto...”.
Non manca – non potrebbe – un occhio di riguardo a lutti e tragedie più e meno à la page: dalla strage di Bologna all’11 settembre, dall’assassinio di Moro a Pinelli e alle guerre slave. Tutti vissuti come ripetute prove del nove della propria Visione del Mondo, con rime strabiche che forse vorrebbero guardare ad autori di razza – buttiamo lì un nome: Pasolini? – e fissano invece Nilla Pizzi (riveduta da Arbore e Frassica): “(...) a cercare ciascuno una via di comprensione / dell’immensa sconfitta dell’umanità / derelitta, per quell’amore / del vero ch’è ancora nel cuore”. Anche se, quanto ai lutti, non manca qualche sortita in territori tutto sommato originali, poco praticati, coraggiosi, come ad esempio quello di Edoardo Agnelli, evocato per essere subito piegato all’ideologia attraverso immagini di dubbio gusto: “voglio pensare al tuo andar via da qui / come a un volo dal viadotto dell’abbienza”.
Da notare, infine, il sapiente utilizzo della punteggiatura: escluso un pugnetto di traduzioni dal francese, su 199 testi se ne contano ben 155 che terminano con i puntini di sospensione... E capita di imbattersi in filotti poetici dove si chiudono con i tre puntini anche 21 poesie di fila. Qualcuno potrebbe considerarlo un inconfondibile marchio di fabbrica, il segno di uno stile. È difficile a dirsi, ma certo è che 155/199 sembra una percentuale da vero Michael Jordan del verso. Sul senso da dare a questa scelta (un soffermarsi sull’orlo dell’apocalisse quotidiana? la prova di un horror vacui che taglia il respiro?) ognuno è libero di pensarla come crede. Sono argomenti su cui non v’è certezza. Ciò che appare assolutamente necessario e non più rinviabile, anche alla luce della lettura di questo libro, è una moratoria – perlomeno trentennale – sulle ceneri di Pasolini.
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Per darsi un tono
si appella a Pasolini:
che non risponde.
Articolo di Stefano La Notte del 6 aprile 2010 per Poetastri.com