Lo strano caso delle poesie di Mark Haddon, brutte due volte

Uno è lì che non vede l’ora di scrivere un romanzo. Poi un bel giorno lo scrive, lo pubblica, e si ritrova con un enorme successo di pubblico e critica. Non solo: diventa un caso letterario, il suo romanzo viene tradotto “in oltre venti paesi” (citiamo dal risvolto Einaudi, astenendoci dal commentare la bizzarria della formula) e domina per mesi le classifiche dei best-seller.
Bene. A questo punto il nostro bravo romanziere – che bravo lo è davvero, e il successo l’ha meritato davvero – decide di cimentarsi con la poesia. E, quel ch’è peggio, si reputa in grado di saperlo fare.
Risultato: affastella una ventina di “poesie, ballate e ninnenanne” (citiamo dal sottotitolo Einaudi, astenendoci dal commentare tout court) il cui unico contatto con poesia, ballo e ninnananna sta nella frequenza degli a-capo, nella volubilità del baricentro e nell’effetto potentemente soporifero.
La domanda è: perché l’ha fatto?
Parlassimo di un qualsiasi Houellebecq, il quesito non si porrebbe: se ti osannano come romanziere anche se non hai mai scritto un vero romanzo, il minimo che tu possa fare è sfruttare l’ebetudine di critici e media per passarti gli sfizi più bislacchi – cominciando col suonare in un gruppo rock e finendo appunto con lo spacciare per poesia i tuoi versicoli da liceale introverso.
Ma qui no, qui parliamo del Mark Haddon di Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, ossia di un signor romanziere autore di un signor romanzo. E appunto ci chiediamo: quale oscuro tarlo di malintesa vanità spinge un narratore di rango a buttarsi in poesia? Quale nefasto delirio di onnipotenza gli fa credere che la maturità di narratore equivalga a quella di poeta, e che dunque sia decoroso pubblicare ciarpame del tipo contenuto nella suddetta raccolta?
Già il titolo la dice lunga, oltre che in lungo: Il cavallo parlante e la ragazza triste e il villaggio sotto il mare. Sembra una parodia del peggior Benni, però ha il pregio di chiarire sin dall’inizio il tenore dell’opera: cinquanta pagine di versificazione ottenuta per apoplessia della prosa, con senso & suono affidati all’ingegno del lettore ealla clemenza del suo orecchio mentale.
Un esempio per tutti, l’incipit del brano dedicato, giustappunto, ai Poeti: “È raro che corrano in bici | e perlopiù ignorano || i travagli del motore a scoppio. | Sono tuttavia a proprio agio nei taxi. || Vanno in giro fino all’alba | e finiranno per scovare quell’acre liquorino blu | che comprasti a Majorca | per fare quattro risate, e si sveglieranno tardi.” Di senso, come si vede, ce n’è pochino. Quanto al suono, abbiamo cercato di sopperire con una traduzione indulgente, poiché quella fornita dall’Einaudi è così letale da far sembrare armonioso perfino lo schiamazzo dell’originale.
Toccato il tasto della traduzione, si innesca un nuovo e altrettanto penoso quesito. Per quale motivo una poetessa come Elisa Biagini accetta di tradurre poesie brutte come queste di Haddon? Per vanità? No di certo, giacché tradurre l’impoetico costringe fatalmente a spoetizzarsi, dunque a sfigurare. Per denaro? Nemmeno, giacché il mestiere di traduttore è notoriamente inadatto a procurarne. Allora perché?
Attenzione: oltre a essere una poetessa vera, la traduttrice in questione ha ottimi rapporti sia con l’italiano sia con l’inglese – quindi, per intenderci, non appartiene alla categoria di Aldo Nove, che anni fa riuscì a massacrare i bei versi di Lachlan Young grazie a un esilarante mix di sordità poetica e scarsa familiarità con entrambi gli idiomi. Eppure, esposta alle brutture di Haddon, la Biagini traduttrice si disorienta fino a smarrire la formidabile capillarità fonosemantica di cui è capace quando verseggia in proprio. Col risultato di steccare persino lì dove l’originale è miracolosamente intonato, abbandonandosi a una gazzarra di diluizioni scriteriate (vedi lo schiocco di “jets” che diventa lo sbadiglio di “motori a reazione” o la brutalità di “tug” sedata in “strattone”), ripetizioni e assonanze arbitrarie, rime negate (perfino a una ninnananna!) e sventatezze da dilettante, come il tradurre quel che non andrebbe tradotto (vedi il droghereccio “brown sugar” letteralizzato in un ridicolo “zucchero scuro”) e l’ignorare quel che non si sa tradurre (i “sad-dog brakelights” ridotti a comodi “stop”, il “gentleman queer” assurdizzato in “gentiluomo queer”).
Certo, neppure una traduzione decorosa sarebbe riuscita a nascondere il fatto che Haddon in versione poeta sia un cane. Ma almeno gli avrebbe evitato la fine di quello eponimo.

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Brutta poesia
fa Haddon romanziere.
Ultra crepidam.

Articolo di Sergio Claudio Perroni del 19 novembre 2006 per Poetastri.com

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