Lui, che del Signor G. è stato sempre un cultore, l’epidemia di euforia funebre mista a bulimia sentimentale scoppiata in morte di Giorgio Gaber sarebbe anche riuscito a risparmiarsela fino in fondo. Lui – che, ancora liceale e pur ferocemente fascio, abbarbicato alla balconata di un Brancaccio allora fatiscente si era addirittura commosso assistendo alle prime gesta teatrali del Signor G. – avrebbe anche potuto farcela a elaborare quella morte di poeta senza avvilirsi nel fastidio dell’iniziato per la sfrontata ignoranza dei neofiti. E soprattutto senza doversi imbestialire per la grettezza di commemorazioni basate su competenza dell’ultim’ora, racimolata via Internet e inevitabilmente farcita di attribuzioni a Gaber di ciò che spetta a Luporini, di citazioni a vanvera e, quel ch’è peggio, di grotteschi adattamenti alla contingenza mortuaria dei titoli dei suoi recital, ciascuno perfetto per fargli da epitaffio, dunque irresistibile per la smania di profanazione di redattori e programmisti ad alta creatività. Lui, oggi pacioso musicologo gay e girotondista, se non fosse stato per Merlo ce l’avrebbe fatta a schivarla del tutto, quella morbosa gazzarra di vacuità mediatiche.
Pur ghiotto di giornali e televisione, infatti, in quei giorni è riuscito a scansare ogni articolo e ogni sedicente “speciale” su Gaber; e c’è riuscito ripetendosi a mo’ di mantra i versi di una preziosa lirica di Vivien Lamarque, poetessa autentica e ispirata benché rea confessa di avere per musa uno psicanalista (per giunta junghiano): “Siamo poeti | vogliateci bene da vivi di più | da morti di meno | ché tanto non lo sapremo.” Poi, però, passata l’onda limacciosa sollevata dai coccodrilli, ha istintivamente abbassato la guardia. Non si aspettava che editori e discografici adempissero con tanta tempestività alle asserite ultime volontà del poeta, sfornandone già a cuore tiepido l’opera postuma e dunque istigando i media a riesumarne poetica e versi. Sicché, qualche giorno fa, notato sulla prima pagina del Corriere un articolo di Francesco Merlo su Gaber, e apprezzando Merlo per come sa innervare di poesia la propria prosa, ha ceduto. Subito ripagato dalla bellezza di un’immagine: «a Gaber l’Italia premeva come una vendetta, come un testamento». E, poco oltre, premiato da un’altra: «aveva ancora l’Italia alla gola». E, subito dopo, tramortito da una stronzata formidabile, lancinante, una delle più grosse mai scritte o anche soltando dette in materia: «la poesia è, sempre, una cattiva azione contro qualcuno o qualcosa, una coltellata al mondo».
«Cattiva azione» la poesia? «Coltellata al mondo»? «Sempre»? Una vera bestialità, una zaffata di cinismo questurino degno del peggior Fouché, del peggior Scarpia; addirittura peggio del “La poesia fa male | ma per nostra fortuna | nessuno ci vorrà credere mai” con cui Balestrini concludeva la sua Piccola Ode al Pubblico della Poesia, che peraltro ha il pregio di essere forse l’ultimo componimento comprensibile di un autore oggi imprigionato nella vanità di cabale che solo gli sventurati emuli di Adorno fingono ancora di capire.
Per rifarsi, e non certo perché gli occorresse documentare una fesseria tanto palmare da smentirsi da sé, si è subito rifugiato fra le pagine dell’ultimo Szymborska pubblicato da Scheiwiller, La fine e l’inizio: “Dopo ogni guerra | c’è chi deve ripulire ||… || C’è chi ascolta | annuendo con la testa non mozzata. | Ma presto | gli gireranno intorno altri | che ne saranno annoiati. || C’è chi talvolta | dissotterrerà da sotto un cespuglio | argomenti corrosi dalla ruggine | e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti. || Chi sapeva di che si trattava, | deve far posto a quelli | che ne sanno poco. | E meno di poco. | E infine assolutamente nulla. || Sull’erba che ha ricoperto | le cause e gli effetti, | c’è chi deve starsene disteso | con una spiga tra i denti, | perso a fissare le nuvole”.
Se pensieri del genere sono una cattiva azione, si è detto richiudendo il libro, allora aveva purtroppo ragione Dario Bellezza, altro accoltellatore di mondi, quando scriveva: “I poeti animali parlanti | sciagurano in bellezza versi | profumati – nessuno li legge, | nessuno li ascolta. Gridano | nel deserto la loro legge di gravità.”
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Mentre calunnia la poesia,
a Merlo
fischiano le orecchie.
Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 1 febbraio 2003