Magrelli supera i quattro gradi di separazione tra spazzatura e letteratura, ma scivola su Orengo

Ora che è morto Raboni, a noi italiani è rimasta un’unica eccellenza poetica. Unica al maschile, s’intende, ché al femminile ne abbiamo a bizzeffe (distinzione legittima in poesia, dove la differenza di genere è così spiccata da rasentare quella di specie).
Certo, non mancano poeti in grado di farsi leggere con piacere, o che almeno sappiano dire in versi l’indicibile in prosa. Ma l’eccellenza è altro: è scrivere versi che alla pertinenza di suono uniscano una risoluzione rappresentativa tanto alta da inibire all’interpretazione qualsiasi sviluppo che non sia in profondità; versi che con la tempra della narrativa di rango riescano a inchiodare alla pagina anche il lettore allergico alla poesia. E di poeti capaci di scrivere così, appunto, ce n’è rimasto soltanto uno.
Provate a dar da leggere una raccolta di Valerio Magrelli a un cultore dei romanzi della Nothomb o di Veronesi o di quei pochi altri narratori d’emozione che abbiano saputo crearsi negli anni un seguito di fedelissimi: avvertirà gli stessi sintomi che gli rendono grate le pagine dei suoi beniamini, e con la stessa eziologia.
La forza di compenetrazione dei versi di Magrelli è di quelle che provocano un senso di vuoto destinato a durare finché non si sia rastrellata e divorata l’opera omnia dell’autore. La forma è così fluida da mettere un’insana voglia di cimentarsi in proprio con la scrittura – e subito toglierla grazie alla manifesta irraggiungibilità del modello. Il contagio introspettivo è così poderoso da far odiare qualsiasi ostacolo si ponga fra il proprio tempo liberato e il volume in attesa d’esser letto (“Io sono colui che manca | dal mondo in cui vivo, colui che tra tutti | non incontrerò mai. |…| Io sono la mia eclissi | la contumacia e la malinconia | l’oggetto geometrico | di cui per sempre dovrò fare a meno”); e la tensione speculativa è di quelle che danno la frenesia del leggere a garganella, con occhio e pensiero incapaci di scollarsi dal testo (“Io cammino fumando | e dopo ogni boccata | attraverso il mio fumo | e sto dove non stavo | dove prima soffiavo”). Le sue liriche, insomma, superano di slancio e all’unisono le quattro prove di leggibilità che separano la letteratura dalla spazzatura, il reale profitto del lettore dal preteso tornaconto dell’autore. E ci riescono tutte, perfino le troppe il cui oggetto poetico è in bilico sul baratro prosaico dell’autoreferenza (“Essere matita è segreta ambizione. | Bruciare sulla carta lentamente | e nella carta restare | in altra nuova forma resuscitato.”)
Cosa ci fa allora la firma di Magrelli sul risvolto di Narcisi d’amore di Nico Orengo? Perché un poeta della sua statura si abbassa a garantire ciarpame rimaiolo quale “Una gabbia di bambù | la tua mano su e giù, | nel fiore che si sfoglia: | com’era bianca la tua magnolia” e “Pim-pum-pam, | lassù c’è Aldebaràn. || Pam-pum-pim, | laggiù c’è Telescopiùm”?
Ha un bel dannarsi, il nostro last poet standing, a non spendere mai la parola “poesia” in sessanta righe di prefazione: lo sputtanamento è comunque garantito, visto che poi spaccia per “scintillanti collane di rime” un circuito di corbellerie che va da “Il portico era stretto | e la rosa di un rosa confetto. | Io te l’ho regalata | ma te la tua non me l’hai data” a “Di Simonetta ho visto una schiena | e un poco di tetta. | Simonetta ora abita a Torino | e se prendo un taxi le sono vicino.”
Né il suo faux pas può dipendere dall’essere Orengo responsabile di Tuttolibri: all’opera di Magrelli non servono i soffietti dell’inserto culturale della Stampa – la cui autorevolezza, peraltro, è ormai sbiadita come il verseggiare squallido e smorto del suo boss (“Perdo capelli | più degli anelli che ti ho regalato, | guarda che testa, in che stato! | Ho visto quelli in tivù! | lunghi da qui a laggiù…| Eppure con l’afa che fa, | che rabbia mi dà”). E allora perché l’ha fatto? Forse per provare il brivido di dirsi anche lui, come fa Orengo in una clausola di raffinata introspezione, “Aveva ragione, ho la | testa da cazzone”. 

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Dopo i noccioli
Orengo intaglia versi –
o sono bucce?

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 31 dicembre 2004

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