Lo sbaglio di comprare (e leggere) Erri De Luca in versi, strazio afono in prosa accidentata

Ha fatto uno sbaglio. A furia di vederlo in classifica, ha comprato Il contrario di uno di Erri de Luca. Ma lo sbaglio non è questo – anzi. Il libro le è piaciuto. Non per cosa racconta, visto che perlopiù sono bagattelle private dell’autore e della sua noiosa branca generazionale, sempre lì ad assillare con un Sessantotto spacciato per Risorgimento (“l’Italia era un quartiere in fiamme, le prigioni traboccavano di insorti”), fra cariche di polizia che manco il Cile di Pinochet e bottegai della Garbatella in rivolta contro i celerini come bresciani contro gli austriaci. Le è piaciuto perché, nel raccontare quel poco, forse per supplire a quel poco, De Luca impiega una carica espressiva inaudita e un sensibilità intensa fino al femmineo; ma anziché con l’enfasi delle varie Mazzantini lo fa con un vigore aspro che ha tensione e senso da poesia. E a lei la poesia piace molto, specialmente ora che è estate: perfetta per letture da amaca, con gli asini di Alicudi a ragliarle intorno.
Perciò, quando poi ha scoperto un De Luca addirittura in versi – Opera sull’acqua e altre poesie, edito da Einaudi – s’è affrettata a comprarlo. Ed ecco lo sbaglio. Perché invece che nel suo elemento d’elezione, come credeva, l’ha trovato in una sorta di limbo afono, fra ritmi da prosa accidentata e contenuti che risentono troppo dell’affanno formale per riuscire a esprimere sostanza poetica. Sostanza comunque rara, e che quando c’è spande una scabrosa eco di elementi altrui.
Si va dal Prévert nella filigrana di “Sputi” (“Lo sputo nella mano | si asciuga sul piccone, | lo sputo in terra | poi diventa fango | da impastarci un Adàm, | lo sputo contro il muro | era rosa di sangue, | lo sputo per la fame | è duro di bestemmia…”) al Kipling da aula elementare di “Valore” (“Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca. | Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle. | Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non s’è risparmiato, due vecchi che si amano. |…| Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia. | Considero valore l’uso del verbo amare…”). E se “Natale” le ricorda il sanremesco binomio Pallottino-Dalla (“…Io non mi chiamo Maria, ma questi figli miei | che non hanno portato manco un vestito e un nome | i marinai li chiamano Gesù. | Perché nascono in viaggio, senza arrivo.”), in “Tessera” scatta perfino l’autoimprestito rossiniano, ché infatti “Molti amici in prigioni e negli esili | scontano il novecento anche per me” non è altro che prosa contraffatta per quella “generazione imperdonabile che ancora sconta il debito penale del suo millenovecento” già letta nel Contrario.
L’infimo dell’ispirazione, però, lo trova nelle prove di poesia civile, trombonate fra il filantropo a buon mercato di “Nei canali di Otranto e Sicilia | migratori senz’ali, contadini di Africa e di oriente | affogano nel cavo delle onde. |… | La terraferma Italia è terrachiusa. | Li lasciamo annegare per negare” e il Paolini di rimbalzo di “Era di notte, aggredite dal crollo | esplosero le acque verso l’alto a strappare le case di Erto e Casso | …| oltre la muraglia-sgabello a sradicare a valle Longarone, | lago, fiume e tempesta di Vajont, demila nostri spenti.”
Per fortuna lo strazio dura poche pagine (il volume ne ha una trentina, di cui dieci elegantemente dissipate in apparato editoriale) e le lascia il tempo di chiudere la parentesi sull’amaca con qualche verità poetica del Contrario: “Non sciupare il seme, prescrive un arduo comandamento. Raccoglierne qualcuno è una più accessibile consegna contro il fitto spreco del vivere.” “Un popolo è molte volte un corpo.” “La libertà rubata dev’essere feroce, altrimenti non regge al rimorso del dolore di chi resta.” – per soffermarsi sull’ultima, che le è più vicina: “Più tardi ho amato qualche altra con lo sbaglio che fosse ancora lei. Pretendevo quello sbaglio per potermi innamorare.”

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Gracchiar di versi
in guazza di a capo.
Erri, poeta.

Articolo di Sergio Claudio Perroni da Il Foglio del 2 agosto 2003

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