Non nova, sed Nove: Maria in pasto al cannibale

“Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e cretini che non l’hanno vista,” diceva Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi. Aldo Nove, con il poema in trenta canti Maria (di prossima uscita presso Einaudi ma anticipato con grande strepito sulll’ultimo numero di “Poesia”) ha fatto il salto dalla seconda categoria alla prima. Certo, già in Fuoco su Babilonia! crepitava qualche favilla mariologica, pur costretta a coabitare con l’invocazione di una “madre grande | e troia come un fiume | di luce”. Ma giacché, attesta l’uomo dei topi, la puttana cela in sé la madre venerata (e viceversa), Nove ha virato con fervore al versante celeste del binomio, al côté uranio contro quello pandemio. D’altronde Nove è un “onnipotenziale” (così l’onnipresente Andrea Cortellessa lo elogia nella presentazione) e può passare con il massimo agio dalla microsociologia sul precariato alle lodi della Vergine. Anzi, Cortellessa ne parla come di una specie di Laforgue nostrano (anche se l’esempio che porta è quello di Palazzeschi), un petit hypertrophique stralunato e dal cuore tenerissimo che riesce con mestiere a parodiare – e straniare – tutti i metri e gli stili.
E così il totipotente Nove sarebbe riuscito a “fare propria – con assoluta e sbalorditiva naturalezza – la tradizione secolare dell’inno mariano”. Peccato che di questa tradizione la novena di Nove serbi solo il peggio, volgendo in scialba filastrocca crepuscolare, in cantilena vispateresoide, la felice e canora ridondanza dell’innografia liturgica. È vero, come scrive ancora Cortellessa, che la tradizione mariana “usa parole semplici e fiammeggianti per dire concetti anche teologicamente ardui”; e questo vale anche per le sue degne prosecuzioni: l’Ash Wednesday di Eliot o The Mother of God di Yeats. Ma solo un orecchio inetto al più elementare discernimento degli spiriti può scambiare per semplicità concettosa quartine che ricordano il Bonaventura di Tofano più che quello di Bagnoregio, o gragnuole di versi smozzicati che si vorrebbero Silesio ma fanno pensare al re del cruciverbone Bartezzaghi.
“Tu sai: senza di te, non era vero | l’inizio. Tu, lo inveri. Io non ero | senza di te. Sì, c’ero, ma non ero | davvero. Come tutto. Tu sei il senso”: così fa dire Nove all’Arcangelo Gabriele, costringendolo per giunta a sganciare l’ennesima rima a casaccio (“Io sono qua nella tua casa immenso”). Per far eco a “conosco”, l’Arcangelo diventa “la luce del bosco”; il satanico serpente calpestato dalla Vergine che “all’infinito cresce” sfocia su un improbabilissimo “mesce | l’odio”. Ancor peggio capita con la “brulla | nottata che ti trasformava in culla”, o con la povera Maria che diventa “infuocato arbusto” pur di far rima con “già schiava di Augusto” (probabile calco del fabriziodeandriano “schiave già prima di Abramo”).
Eppure, imperterrito, Cortellessa continua a lodare questo distillato di ars poetastrica, che esibirebbe nientemeno quelle che sono “da Dante in giù, le stimmate di ogni poesia religiosa che sia grande poesia”. E via a inanellare fumisterie pseudoteologiche (“è con la nascita del tempo che il Creato si Crea davvero”, dove l’uso allusivo di maiuscoli e corsivi serve a dire banalità senza aver l’aria di dirle), prodigate per illustrare versi da convitto monacale: “Da tempo immemorabile era bella | e più che una bambina era una stella. || Più che una stella era qualunque cosa. | Più di qualunque cosa era amorosa”.
Si procede poi con impuniti canzonettismi (“Ma i sogni la sognavano più forte” o peggio “L’immensità del cielo è una capanna”) e fervorini catto-gruppettari (“bandiere | di ogni colore eppure tutte nere, | il sogno modellato dal volere | di chi scambia l’amore col potere”). Ma il punto più basso di questa dolorosa kenosis della decenza poetica è senz’altro l’incipit lumpen-iacoponico del canto XXIV: “Donna d’eterno, donna del presente | invariato dei cuccioli millenni | allattati al tuo seno”, che raccomandiamo vivamente alla giuria del PUS.
L’aspetto più grottesco della perorazione di Cortellessa riguarda comunque la forma: l’ex cannibale che diventa “classico” e spicca per “la calibratissima trama metrica” delle “quartine di endecasillabi variamente rimati” – elogio a dir poco curioso, per un poema che si apre con le quattordici sillabe di un martelliano (“Lei era una bambina che qualunque collina”) e continua con endecasillabi assemblati col pallottoliere. E il “fren de l’arte” del grande artigiano Nove ha quanto meno le pasticche usurate, già che le sue quartine fuori misura rovesciano i propri detriti sulla quartina seguente, non diversamente da quei vicini molesti che scuotono le loro tovaglie sul terrazzo dell’inquilino del piano di sotto. Ma nulla dissuade Cortellessa, che esprime l’emozione “del veder nascere una grande poesia” e ovviamente (alla stanca maniera pasolinocentrica di un certo micromondo letterario romano) grida allo “scandalo”, parola che ricorre una dozzina di volte nella sua presentazione, a partire da titolo ed epigrafe, in un’accezione che non si sa se evangelica o mediatica, se da Buona Novella o da Novella 2000. Dobbiamo però riconoscergli che ha ragione nel dire che lo scandalo non riguarda la “‘conversione’ del già ‘cannibale’ al cristianesimo”: qualunque studioso di religioni comparate saprà mostrarvi la parentela tra antropofagia e banchetto eucaristico.
Il vero “scandalo”, suggeriamo, sarebbe vedere Nove che fa poesia e Cortellessa che fa critica.

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Del tuo supplizio
fatto n’à gran mercato
Nove il novizio

Articolo di Guido Vitiello del 20 febbraio 2007 per Poeteastri.com

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